giovedì, maggio 25, 2006

Involuntario sigue

Festa del dolor

"MARTA SALVADOR - 25/05/2006
BARCELONA

Em pregunto què fa que una persona gaudeixi d´un espectacle basat en actes bàrbars per tornar boig de dolor un rumiant pacífic i simular un combat, tot fumant-se un cigar, assaborint un entrepà o incitant el torero, i que altres hagin de girar la cara amb el cor trencat, vessant llàgrimes per la impotència de no poder defensar-lo?

Una idea equivocada de la tradició, la cultura, l´art; neurològica, de sentiments, de costums; política o econòmica? Però una cosa està clara, la força per abolir aquesta salvatjada nacional basada en la tortura a un ésser viu està en mans de les noves generacions, els activistes europeus i l´empatia perquè hom pugui entendre que el dolor és igual per a tots. No n´hi ha prou de tenir raó si no es té força. "


Estimado catalán,

veo que la politica ofusca tu mente y te lleva a escribir en "La Vanguardia" cosas dignas de ser consideradas "estimados catalán" involuntarios.
Te contestaré, bueno no yo personalmente sino que te contesta a través de mi Alessandro Baricco.
Es un escritor muy famoso también aquí en España y hace tiempo publicó en "La Repubblica dos artículos sobre la corrida.
Los lectores reaccionarón quejadose de que se escribiera de tal espectaculo, y Baricco - que ciertamente no es un conservador - contestó así:
(es en italiano pero tu respetas tanto los idiomas que no te costará nada entenderlo)


I lettori indignati e il tabù della Corrida

Alessandro Baricco

Sono arrivate numerose lettere di protesta, a “Repubblica”, per i miei due articoli pubblicati, nei giorni scorsi, sulla corrida. A scrivere sono stati molti animalisti, ma anche lettori non abitualmente impegnati in quel genere di battaglia. Tutti si dicono esterrefatti e indignati per aver trovato, nel giornale, “pagine dedicate all’esaltazione della corrida”. Tutti sottolineano che la corrida è una “pratica atroce e barbara”, uno “spettacolo insulso e arcaico”. I toni vanno dal sinceramente addolorato all’apertamente aggressivo, con corredo di insulti e appelli al boicottaggio. Unanime sembra la condivisione di un principio: “nessuna tradizione o divertimento può basarsi sullo sfruttamento e sulla sofferenza di altri esseri viventi”.
A me interessano quei pezzi di mondo in cui l’orrore e il meraviglioso si intrecciano in un modo apparentemente inestricabile. Mi incuriosisce la possibilità che qualcosa di bello abbia bisogno, per nascere, di un terreno che fa schifo: e mi attira riflettere su tutto ciò che di orrendo può nascere da un terreno che crediamo positivo e giusto. C’è qualcosa, in fenomeni come quelli, che sfugge a ogni logica: sono domande aperte, e scomode.
Boicottano la nostra generale propensione a un igienismo ideologico per cui esistono solo cose pulite e cose sporche. Ci aiutano a ricordare che noi siamo più complessi di così, e il mondo che noi abbiamo prodotto non è completamente coerente: in molte sue tessere, pulizia e sporcizia dipendono una dall’altra: hanno bisogno una dell’altra. Mi capita spesso di andare a vedere da vicino quelle tessere: e di provare a scrivere quello che ho visto. Credo che sia una delle cose che dà un senso al mio mestiere.
Tempo fa sono andato a Vienna a vedere che effetto faceva ascoltare i Wiener Philharmoniker nel cuore di un Paese in buona parte xenofobo e razzista. Qualcosa di sublime che accade spalla a spalla con qualcosa che detesto. Sarebbe stato abbastanza semplice tirare una bella riga e mettere di qua l’Austria pulita (quella dei concerti) e di là quella sporca (quella di Heider). Il nostro istinto igienista sarebbe stato letteralmente deliziato da una cosa del genere. Ma la verità è che io sono andato là proprio perché non credo che si possa tirare quella riga: perché so come l’apparato ideologico sui cui la musica classica si appoggia per produrre il sublime sia un apparato in buona parte discutibile, obsoleto e deteriore: perfino parente di quello che ha generato Heider. Lo so e non lo voglio dimenticare, perché è una delle cose che rende la bellezza prodotta da quel mondo una bellezza sofferta, intelligente e vera. I Wiener, in quel momento, in quella città, non erano qualcosa di tranquillizzante: erano una domanda aperta, e scomoda. Sono andato, e ho scritto.
Con uno spirito non molto diverso sono andato a vedere la corrida. C’è qualcosa, in quello spettacolo, che evidentemente non torna. E che fosse un argomento scomodo lo sapevo io e lo sapeva il direttore di questo giornale. Ma proprio per questo ci è parso che valesse la pena di andare a pensarci un po’ su, al riparo dall’urgenza della cronaca, e col respiro necessario a una riflessione che provasse ad andare al di là dello slogan o del luogo comune. Mi ha sconcertato leggere, nei messaggi dei lettori, l’unanime convinzione che ne siano usciti due articoli di “esaltazione della corrida”. Posso dirlo serenamente: non sono due articoli di esaltazione della corrida. Sono il racconto di uno che va, guarda, vede l’orrore, e vede la bellezza. Sono il racconto di uno che si sforza di non nascondersi né una cosa né l’altra. Perché è nella coabitazione dell’orrore e della bellezza che quel fenomeno diventa cifra da interpretare, domanda aperta, e spia di una certa civiltà. Se in quegli articoli si parla molto della bravura dei toreri e meno della sofferenza dei tori, è perché l’orrore della corrida lo puoi fermare per sempre in un sola frase, tanto è evidente e cristallino: mentre la sua bellezza è qualcosa di meno a portata di mano, meno gradevole da raggiungere, più difficile da accettare. Ma c’è. Per quanto possa fare schifo, c’è. E negarlo può aiutare la causa della difesa degli animali, ma non la nostra ambizione a capire il mondo che quotidianamente produciamo.
Se può interessare quel che penso, io penso quello che ho scritto: la corrida “è un orrore grottesco che alcuni toreri tramutano in spettacolo sublime”. Non credo che questo basti a volerla difendere. Continua a sembrarmi assurdo, per dire, che la UE trovi il tempo di perseguire i formaggi di fossa o i forni a legna delle pizzerie, e non si sia ancora posta il problema delle corride. E, francamente, penso che la corrida abbia le ore contate: non credo che mio figlio la vedrà, perché non esisterà più. Ma adesso, ancora, esiste. Puoi far finta di niente, ma se decidi di andare, e scriverne, quel che devi fare è cercare di capire, non cercare di ammortizzare lo choc. Non serve a niente. Non sei lì per quello. Speravo che i miei lettori accettassero di compiere insieme a me quel piccolo viaggio nel cuore di qualcosa di sgradevole, e enigmatico. Constato che almeno una parte di loro non ne sentiva proprio il bisogno, e non ne condivide assolutamente la necessità. Rispetto la loro posizione. Mi piacerebbe provassero a capire la mia.

La Repubblica, 14 maggio 2000.


si te interesarán los artículos que levantarón la polemica puedes escribirme, te los enviaré.

Atentamente